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Risk management ospedaliero, una lezione dal Coronavirus

Durante la pandemia da Covid-19 il risk management ospedaliero si è dimostrato all’altezza del compito?

 

La possibilità che un paziente subisca un danno involontario imputabile alle cure sanitarie prende il nome di rischio clinico e gli interventi finalizzati a studiare, identificare e ridurre tale rischio prendono il nome di gestione del rischio o, in inglese, risk management. La legge di Stabilità 2016 ha previsto che tutte le strutture pubbliche e private che erogano prestazioni sanitarie attivino un servizio di risk management con funzione di monitoraggio, prevenzione e gestione del rischio sanitario .

La prima fase del processo di gestione del rischio è rappresentata dall’identificazione dei rischi, finalizzata ad individuare tutti i rischi che si possono verificare all’interno di un’organizzazione sanitaria. L’analisi dei rischi riguarda non solo quelli accaduti ma anche quelli che potrebbero accadere. È possibile infatti, attraverso specifiche metodiche, individuare i rischi potenziali in modo da intervenire con azioni correttive prima che essi si verifichino. In pratica ci si rappresenta idealmente quello che potrebbe succedere e si agisce preventivamente per impedire che accada.

Ma era possibile prefigurarsi gli scenari che si sono poi manifestati con il Coronavirus? Se si ripercorre l’iter delle indicazioni fornite a livello nazionale e internazionale fin dall’insorgere dell’epidemia, sembra di dare una risposta affermativa. Molti erano gli elementi a disposizione per comprendere la pericolosità del virus: le notizie provenienti dalla Cina, l’allarme lanciato dal Ministero della salute,[1] le evidenze scientifiche, le numerose precedenti epidemie (Sars nel 2002, Aviaria nel 2003, Mers nel 2012, Ebola nel 2014, Zica nel 2015).

Si tenga presente che lo stato di allerta per la diffusione del virus era già noto a fine gennaio 2020 ed il 22 febbraio dello stesso anno il Ministero della salute aveva emanato la prima circolare contenenti norme tecniche per le strutture sanitarie, norme finalizzate ad orientare il comportamento delle strutture sanitarie e che quindi, ove fossero state rispettate, avrebbero permesso di prevenire o comunque rallentare la diffusone del virus.[2]

Varie le attività che si potevano realizzare per fronteggiare l’emergenza: elaborazione di piani di formazione ad hoc basati sulla simulazione; elaborazione di  procedure/protocolli per il personale sanitario; informazione agli operatori circa il corretto utilizzo dei dispositivi di protezione individuale; adozione delle precauzioni standard e delle precauzioni di isolamento richieste dalle autorità sanitarie;[3] indicazioni agli operatori su accoglienza e ricovero dei pazienti con sospetta infezione, di percorsi sporco-pulito, di aree di degenza separate per pazienti Covid e non Covid, di stanze per la vestizione/svestizione di medici e infermieri, di programmi di pulizia e sanificazione degli ambienti, ecc.

Invece niente di tutto questo è stato fatto. Abbiamo visto ospedali presi alla sprovvista, privi di precauzioni anche minime, privi di protocolli per la gestione e trattamento dei casi, di linee guida per il triage, di percorsi differenziati all’accesso in Pronto Soccorso per i pazienti infetti o sospetti tali.[4]

Il risk management ospedaliero avrebbe dovuto in quest’emergenza raggiungere la sua massima espressione. Possiamo parlare di occasione mancata? Probabilmente si. Ci si è attivati quando ormai era troppo tardi, quando il problema si era già manifestato. Non si può rimanere immobili ad aspettare disposizioni dall’alto, quando ci sono gli elementi sufficienti per prendere iniziative e agire. 

È necessario ricordare che un approccio di risk management ospedaliero non si adotta semplicemente avendo una figura aziendale con tale titolo (“Risk manager”) ma avendo, a tutti i livelli, una “cultura del rischio” che sia veramente tale, come l’ultima legge sulla sicurezza delle cure richiede.[5]

L’esperienza maturata durante la pandemia ha messo in luce la la necessità di un cambio di paradigma nell’approccio alla gestione del rischio nelle organizzazioni sanitarie. Vi è la necessità che tutte le aziende ospedaliere prendano ad esempio le (ancora purtroppo troppo poche) strutture virtuose che sono riuscite a garantire la continuità assistenziale e la sicurezza delle cure ospedaliere anche in tempo pandemico. Uno studio ha evidenziato come i “risk managers” italiani siano stati coinvolti nelle task force aziendali per la gestione della pandemia solo nel 34% dei casi, pur rappresentando la malattia da Covid-19 una situazione ad alto rischio per pazienti e operatori sanitari.[6, 7]  

Speriamo che quanto accaduto ci sia da lezione, perchè chi non impara dai propri errori è destinato a ripeterli inevitabilmente in futuro.

 

In un altro articolo abbiamo visto quali errori si potevano evitare, in merito alla diffusione del virus in Italia (qui).

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BIBLIOGRAFIA

[1] Ministero della salute. Circolare n. 1997 del 22 gennaio 2020 “Polmonite da nuovo coronavirus (2019 – nCoV) in Cina“(link)

[2] Ibidem.

[3] Ibidem. Pag. 3 

[4] Il Post. “Ci aspettavamo l’alta marea, è arrivato uno tsunami” (link

[5] Legge n. 24/2017. “Disposizioni in materia di sicurezza delle cure e della persona assistita, nonché in materia di responsabilità professionale degli esercenti le professioni sanitarie

[6] Riccardo Tartaglia, Micaela La Regina Michela Tanzini, Chiara Pomare, Rachel Urwin, Louise A Ellis, Vittorio Fineschi, Francesco Venneri, Chiara Seghieri, Peter Lachman, Johanna Westbrook, Jeffrey Braithwaite, COVID-19 Pandemic: International Survey of Management Strategies. 2020 Nov 20;mzaa139.doi: 10.1093/intqhc/mzaa139. Online ahead of print 

[7] La Regina M., Tartaglia R., Fineschi V.. “La sicurezza delle cure a “costo zero” non funziona“. Articolo pubblicato sul sito di informazione sanitaria “QuotidianoSanità” il 25 marzo 2021 (link)

 

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